Come può un lavoratore farsi valere e polemizzare su l’aumento di stipendio non adeguato in fase di rinnovo del contratto? E’ possibile chiedere una cifra diversa?
Discussioni intavolate nel Pubblico impiego tra tecnici e sindacati hanno trattato temi ancora molto delicati. Tra questi, al centro delle polemiche vi è la questione relativa al rinnovo del contratto di lavoro. I sindacati si impegnano nel tutelare i diritti dei lavoratori tanto dal punto di vista economico, quanto da quello di un benessere psico-fisico.
Una grande problematica è costituita dall’inadeguatezza degli importi stanziati per i rinnovi, se comparati all’incremento del costo della vita a causa dell’inflazione. Se la situazione sembrava in stallo, senza possibilità di risvolto, ecco che proprio in questi giorni è apparsa una nuova possibilità per reagire all’ingiustizia dei rinnovi non in linea con la spesa minima da affrontare oggigiorno per vivere.
Si è diffuso un dubbio generale riguardo una possibile reazione ad un aumento inadeguato dello stipendio in fase di rinnovo del contratto di lavoro (vedi quali aumenti sono previsti per il rinnovo dei contratti dei dipendenti statali): è possibile fare ricorso e chiedere un risarcimento per i danni che derivano dalla perdita del potere d’acquisto? Sembrerebbe che ai lavoratori vengano promessi dei risarcimenti che ammontano a qualche migliaia di euro per contrastare lo scontento e l’insoddisfazione che si provano davanti ad un contratto poco vantaggioso. In realtà, le certezze sembrano essere ben poche.
Stando a quanto prevede la nostra giustizia, si ha diritto ad un risarcimento qualora si subissero dei danni a causa di illeciti altrui. Per poter chiedere un risarcimento allo Stato, va presupposto che la responsabilità della condotta illecita sia da attribuire proprio allo Stato, con nesso di causalità rispetto a quanto si abbia subito. Considerando il fatto che ci si sta rivolgendo ad un soggetto giuridico che non corrisponde ad una persona fisica, si dovrà provare che l’azione illecita subita sia stata esercitata da dei tramiti, come ad esempio la pubblica amministrazione (nel caso dei dipendenti statali).
Per azione illecita non intendiamo necessariamente dei reati: rientra anche la violazione contrattuale costituita, ad esempio, dal ritardo nel rispetto di una scadenza o un adempimento. Lo Stato può a tutti gli effetti risarcire un lavoratore se è colpevole della perdita d’acquisto o negligente rispetto ad un dovere contrattuale. Tuttavia, esso non è obbligato a compensare l’inflazione o il caro vita che ne consegue, soprattutto considerando che la presunta colpa non è legata ad un’azione volontaria. Per uno Stato, riconoscersi la responsabilità in fatto d’inflazione, significherebbe risarcire qualsiasi cittadino: una misura impraticabile e controproducente, non in linea con alcuna base giuridica. Questo significa che non è possibile presentare alcun ricorso contro lo Stato chiedendo un risarcimento per uno stipendio inadeguato rispetto al costo della vita.
Nel caso dei dipendenti privati, invece, la responsabilità resta in mano al datore di lavoro. Considerando la giurisprudenza a favore del lavoratore e della sua tutela, ogni datore, quando ritenuto colpevole, può essere richiamato per l’aumento del salario e il saldo degli arretrati. Tuttavia, nessuna legge sostiene che questo sia un obbligo in caso d’inflazione. Inoltre, il danno al lavoratore non è considerato di tipo patrimoniale, bensì di tipo esistenziale: potrebbe dunque essere collegabile ad un errato stile di vita. In ogni caso, non può coesistere un nesso tra l’inflazione e il rinnovo di un contratto.
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